I media ti portano 24 ore su 24 le persone di Avetrana dentro casa. Ti mandano alla moviola i loro passi, i loro gesti, le loro parole mille volte il giorno. Sezionano ogni loro frase, ogni loro mossa, ogni loro smorfia. Introducono con prepotenza le loro storie e i loro volti nella tua quotidianità. Li trasformano in personaggi pubblici da un lato e in vicini di casa dall’altro, in persone che ti sembra di conoscere da sempre, persone che arrivi a chiamare per nome, uomini e donne cui dai del tu, come forse non ti succede manco con la massaia che abita da trent’anni nel tuo stesso pianerottolo. Ti mostrano i loro movimenti, ti avvisano se escono di casa per andare dal salumiere o dal parrucchiere, te li inquadrano mentre si affacciano alla finestra o mentre parlano al telefono dietro le tende. Ti mostrano il giardino della loro casa, il marciapiede che percorrono ogni mattina per andare dal lattaio, la Fiat Punto con l’orso di peluche appeso al retrovisore, le Nike lise della scorsa stagione e i calzini bianchi col mocassino nero. Tutto questo fanno, i media. Tutto questo ti mostrano, in un delirio di curiosità morbosa, insensata, inutile e perversa; un delirio che sembra non avere fine né confine. Salvo poi gridare allo scandalo quando la gente, quella stessa gente che segue i loro farneticanti notiziari no-stop, dopo un bombardamento di tale portata, dopo un simile lavaggio del cervello, piglia l’automobile e va a visitare di persona la scena del delitto, i luoghi in cui vivono e si muovono quelle persone, quegli sciagurati, vittime o carnefici che siano. Turisti dell’orrore, li chiamano, in un’espressione che sarebbe più che appropriata se solo non provenisse dal pulpito di chi quell’orrore lo ha scriteriatamente amplificato sguazzandovi e scavandovi con morbosità, senza pietà, senza freno e senza ritegno. Nel nome di un’informazione, ormai orribile anch’essa, che – da matrice orribile qual è – altro non può fare che generare turisti dell’orrore.