Un mese fa è deceduta la mia insegnante di Lettere alle scuole medie superiori. L’ho saputo solo oggi, buttando l’occhio per caso verso uno dei tanti annunci appesi ai muri della città. Lei insegnava Lettere e Storia; me le ha insegnate per tutto il triennio di specializzazione, dalla terza sino al diploma. Eravamo a metà degli anni ’80, in un istituto tecnico dove l’insegnamento dell’Italiano avrebbe meritato maggiore considerazione di quanta riuscisse ad averne da noi beceri studenti. Lei era un’ottima insegnante, a volte un po’ burbera, a volte un po’ snob, a volte divertente e accomodante. Era una donna colta; amava la sua professione e la sua famiglia. Ne parlava spesso. Ci raccontava sovente di suo marito, dei suoi figli allora molto giovani e di sua madre, scomparsa proprio in quegli anni. Con me era piuttosto esigente. Diceva che scrivevo bene e per questo pretendeva da me più di quanto pretendesse dagli altri. Ciò mi indispettiva molto e mi impediva spesso di stabilire con lei un dialogo aperto, franco, sereno. Il suo pretendere così tanto mi portò ad assumere nei suoi confronti un atteggiamento di chiusura, quasi di diffidenza, un atteggiamento che produsse tra noi un certo distacco e ci accompagnò sino alla fine, sino al mio diploma. Tornai a trovarla la primavera successiva, in classe, durante la pausa della ricreazione, proprio nell’aula in cui per anni avevo ascoltato le sue spiegazioni, risposto alle sue domande, elaborato i miei temi, quelli che lei rigava spesso di rosso, in quella stessa aula in cui avevo trattenuto il respiro chissà quante volte, nei momenti che precedevano l’interrogazione, quando stai col fiato sospeso e speri che l’insegnante, tra tanti, non chiami proprio te. Fu un bell’incontro, quello, pieno di belle emozioni, di sorrisi sinceri e di simpatia. Una sorpresa. Non era come pensavo, scoprii. Quel muro che mi separava dalla prof (all’epoca però non ci saremmo mai permessi di chiamarla prof, la chiamavamo signora) esisteva solo nella mia mente, o comunque non era così insormontabile come mi appariva. Lo compresi solo allora, e solo allora compresi che per giudicare qualcuno o qualcosa devi aspettare che il tempo compia il suo lavoro, smussi gli angoli più acuminati del tuo vissuto, ti porti fuori, ti dia modo di guardare le cose dal loro esterno, senza l’inevitabile coinvolgimento di chi è dentro, di chi le vicende le vive in prima persona e le sente sulla sua pelle e non riesce quindi a valutarle con obiettività. Scoprii che il tempo, pur non cancellando i ricordi, riesce a renderli meno vividi, meno pungenti e quindi meno coinvolgenti. L’ho imparato allora, mentre guardavo alla professoressa con una serenità sconosciuta, mentre la vedevo sorridermi e la sentivo chiedermi cose e interessarsi di me. L’ho imparato là e ho continuato a sperimentarlo giorno dopo giorno. Oggi guardi alle cose di ieri e le valuti con la serenità che non avevi. Domani guarderai alle cose di oggi, anche alle più dolorose, con la serenità che ora non hai. Il tempo è il migliore amico del buon senso, dell’equilibrio, del giudizio pacato e obiettivo. Il tempo ci aiuta a sorridere laddove ora piangiamo, sa rendere più quieto il nostro cuore agitato. Quanto alla mia professoressa, era una brava insegnante, una persona leale e per bene. Se so mettere in fila quattro parole lo devo anche a lei. Ma riuscii a stabilirlo solo lì, in quel momento, in quell’assolata mattina di primavera, mentre, a giochi fermi, riuscivo a sorriderle come non mi era mai accaduto. Il tempo aveva compiuto il suo dovere.
Quanto ho odiato la mia prof di matematica…eppure adesso é l’unica che mi ritrovo a pensarla dopo tutti questi anni e a mente lucida …non era cosí male, ero io che non capivo. Quante cose so grazie a lei!