Capelli neri, occhi scuri, idee chiare, grinta da vendere. Era mia zia, la sorella minore di mio padre. La sentivo poco, la vedevo ancor meno. Gli impegni di mio zio l’avevano portata a lungo in giro per il mondo e poi, da tempo, a stabilir dimora cinquanta chilometri più a nord della mia città, del luogo in cui nacque e crebbe anche lei. Scelse di vivere in una piccola cittadina lungo il mare, dove le persone usano muoversi in bicicletta e sembrano affrontare la vita con un’insolita serenità. Amava lo sport, in primis il calcio, e proprio come me era innamorata dell’Inter. Aveva vissuto, ragazza, i fasti di Herrera. Il sinistro di Mario Corso, i guizzi di Sandro Mazzola, gli affondi di Giacinto Facchetti, le magiche notti europee e mondiali dominate dalla Beneamata le avevano rubato il cuore. Erano poche, allora, le donne appassionate di calcio. E proprio al calcio, e allo sport in generale, sono legati alcuni ricordi che ho di lei. La vedo ancora sugli spalti di un piccolo campo di periferia arrabbiarsi per una partita che vedeva mio padre seduto in panchina a guidare una delle due compagini. Perdemmo uno a zero; il centravanti sbagliò un goal fatto, uno di quei goal che non si possono sbagliare. A lei non andò giù e si infuriò come non mai. Era il 1974. Mi teneva per mano. Io avevo 7 anni, lei 28. Era poco più di una una ragazza, eppure mi sembrava chissà quanto grande. E poi il tennis. Un sabato di qualche anno dopo, mentre l’Italia rimaneva a casa a guardare il Festival di Sanremo, andammo insieme al Palazzo dello Sport. C’era un bel torneo, c’erano Corrado Barazzutti e Paolo Bertolucci. A perderseli per guardare il Festival mia zia non ci pensava proprio. E la pallacanestro? La sera del 1 ottobre 1977 avremmo dovuto essere di nuovo al Palasport: la squadra della nostra città era impegnata in un incontro al vertice. Lei aveva già preso i biglietti. Ma io le rovinai tutto finendo sotto un’automobile poche ore prima e costringendola a correre all’ospedale. E all’ospedale, purtroppo, dovette correre molte altre volte. Pochi anni più tardi, infatti, il male iniziò a perseguitarla senza tregua, infierendo su di lei con una successione spietata di colpi tremendi ai quali reagì sempre con forza e con dignità. L’ospedale le divenne familiare. Strinse i denti, fece finta di niente, non diede a vedere nulla. Ordinò ai suoi di non farne parola. Continuò la sua vita di sempre, come se nulla le fosse accaduto, come se nulla continuasse ad accaderle. La paura di una ricaduta, la sofferenza delle terapie devastanti, l’angoscia dei controlli continui non avrebbero in alcun modo dovuto distoglierla dalle sue passioni, dalle sue abitudini, da suo marito, da suo figlio. Nessuno avrebbe dovuto sapere, perché nessuno avrebbe mai dovuto rivolgerle uno sguardo di compassione. Zia non ne aveva bisogno. Zia li detestava. Zia ce l’avrebbe fatta. Zia era forte, lo era davvero. Lo fu per altri quindici tormentati anni. Poi dovette arrendersi in una notte d’estate, la sua cinquantaquattresima estate. La mia estate peggiore.
Bel post Marco
Grazie Luca.