Trent’anni fa, era il primo ottobre 1977 ed erano le 16.00, finivo rovinosamente investito da un’auto. Mi trovavo a poche centinaia di metri da casa, lungo il marciapiede di una via piuttosto trafficata. Con me alcuni amici con i quali avrei, di lì a poco, dovuto dare vita a una partita di pallone. Già, il pallone. E’ lui, unitamente alla mia stupidità, a farmi finire sotto quella maledetta auto. Mentre aspetto un altro paio di amici, infatti, mi metto a palleggiare lungo il marciapiede. Uno, due, tre palleggi e la sfera – di colore giallo e nero a strisce rettangolari – sfugge beffarda al mio controllo. E io cosa faccio? Le corro dietro come un salame. Due passi appena ed è l’inferno. Lo stridore delle gomme, l’auto che mi salta addosso, il pallone che rimbalza veloce lungo la discesa, io che rovino a terra, vivo non si sa come. Dicono mi sia tirato un po’ indietro all’ultimo istante e sia riuscito a sfuggire alla morte proprio grazie a quel balzo. La gamba però non è più lei. C’è qualcosa di strano alla gamba destra ma non me ne rendo subito conto. Mi alzo, la appoggio e la vedo ripiegarsi su se stessa all’altezza della tibia. E’ spezzata in due. Ricado a terra e, mentre un mare di gente si accalca attorno a me, mi metto ad attendere con insospettabile serenità l’arrivo dei soccorsi. Un vecchietto è in preda all’ira, vuole picchiare il mio investitore. Lo tengono a stento. Ricordo le sue terribili bestemmie. L’immagine di un bimbo di appena 10 anni, a terra con la gamba spezzata, deve fare una certa impressione. Qualcuno cerca di spostarmi, di collocarmi ai bordi della strada, ma io mi oppongo con vigore. Nessuno dovrà toccarmi, ci penseranno gli uomini del soccorso. Non mi lascio certo toccare da degli sprovveduti. Arriva mio nonno, e poi mia nonna, e poi mio cugino. Li hanno avvertiti in malo modo, han detto loro che son finito sotto un’auto e sono a terra e non mi muovo. Temono il peggio. Mia madre ne è già convinta. L’urlo delle sirene si sovrappone al suo. Grazie a Dio è “solo” una gamba. L’ambulanza corre veloce all’ospedale, fila via ululando in piazza e lambendo mio padre, che chiacchiera ignaro con alcuni conoscenti. Arrivo al pronto soccorso canticchiando. Tibia e perone spezzati. Dovrò soffrire ma tutto tornerà pian piano a posto. Ci vorrà un pochino ma tornerò a correre. Accadeva trent’anni fa. Non ho perso nemmeno un fotogramma di quei ricordi, così come ricordo tutto il calvario che ne conseguì: i ricoveri, gli interventi chirurgici, l’ansia e lo sconforto di mia madre, il dolore delle medicazioni, della trazione, la tristezza di ogni ricovero, la valanga di esami, i tanti bambini che ho conosciuto nei miei frequenti soggiorni all’ospedale. Senza quell’esperienza non sarei ciò che sono. Ho sofferto, ho visto soffrire, ma sono cresciuto. Avevo 10 anni.

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